Ridendo e scherzando siamo giunti a metà di quella che ormai pare, più che la terza e ufficiale stagione di Twin Peaks, una serie ex novo in cui la nota provincia dello stato di Washington, come un trompe-l’oeil tanto suggestivo quanto fisso e fittizio, rappresenta solo un’immagine sbiadita dipinta su una parete che divide gli interni dagli esterni, il passato dal futuro, il reale dall’irreale. La natura mutata, inquadrata e iconicizzata della vecchia serie ha reso la cittadina quello spazio ideale non solo per osservare il male – non più – ma per scoprire da dove è giunto e (soprattutto) dove è diretto.

Cullen Douglas in a still from Twin Peaks. Photo: Suzanne Tenner/SHOWTIME

Lungo questi dieci episodi la storia è entrata e uscita più volte da quei luoghi statuendo, pur nell’irriducibile inquietudine e follia, una familiare tranquillità. Quando ci si ritrova a Twin Peaks ci si sente in qualche modo al sicuro, come se il male vi si fosse abbattuto come una calamità naturale e un suo imminente ritorno fosse quantomeno improbabile. La natura travolgente dell’oscurità, che si sposta nel tempo e nello spazio in maniera piuttosto lineare – come rivela, pur con le sue astrazioni, l’ottavo episodio – rendono Twin Peaks più un case study che la possibile scena di nuovi delitti. Perciò, che piaccia o meno, il “ritorno” che compare nel titolo appare sia in qualità di promessa rassicurante, sia come indizio estremamente fuorviante. Più l’universo Lynchiano si espande, più è chiaro che sarà difficile ricostruirne la Storia, tracciare le cause e le conseguenze di ciò che accade, di ciò che si osserva.

Quello che però forse importa capire, al di là delle suggestive composizioni retoriche e delle peculiari scelte estetiche, è se il controllo su una narrazione così articolata e distribuita possa in qualche modo sfuggire di mano al suo autore, prestando il fianco a eventuali stalli e incoerenze, fonti di incomprensioni che potrebbero – se non l’hanno già fatto – mortificare e allontanare anche il più curioso degli spettatori. La sceneggiatura seriale ha ragioni che quella cinematografica non ha, e se meglio riesce a smarcarsi dagli ingorghi causati da tempi morti e vuoti narrativi, poiché nel suo complesso si rapporta con una memoria spettatoriale più labile e sovraccaricata, risulta anche meno efficace quando si tratta di dover mantenere alta l’attenzione, condizione che può rendere pericolosa una rarefazione dei significati sempre più ardita.

Eppure, quando con l’ottavo episodio Lynch abbandona la narrazione di genere/i cui, fino a quel momento, ci aveva abituati, il cambio di (messa in) scena non sembra rivelarsi così sconvolgente e innovativo. Nel rappresentare l’origine del male e la nascita di Bob, in un ensemble audiovisivo puramente evocativo, fatto di simboli e simbologie, citazioni e riferimenti, Lynch pare volersi crogiolare in un immaginario da cinema sperimentale – in cui riecheggiano Maya Deren e Hans Richter – tanto affascinante quanto, ormai, obsoleto e sclerotizzato. Un ricorso all’antinarrazione in un momento storico in cui tutto è e tende inevitabilmente all’accumulo ipertestuale. Ma forse è anche un gioco, una costruzione che, mentre inscena un evento epocale nella cosmogonia di Twin Peaks, vuol anche tener traccia delle modalità espressive di quegli anni, con i relativi colori, atmosfere e allegorie… Se così fosse, salvo ulteriori incursioni nel passato, non dovremmo trovarci di fronte ad altri episodi di questo tenore, aspettando che l’unico tramite tra questo mondo e quell’altro – ossia Dougie Cooper – si (e ci) dia una svegliata, decifrando questo rebus che, una volta risolto, ci apparirà sicuramente banalissimo, come d’altronde è il male. Buona continuazione!



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